di Camilla Camilli, Associazione Ya Basta! Êdî Bese!
La situazione in Turchia dopo l’attentato al centro culturale Amara di Suruç.
L’uscita pubblica di Erdogan contro l’Isis era ormai quasi impossibile da rimandare, ma il vero obiettivo è la distruzione dell’esperimento politico del Rojava.
Il 20 luglio il centro culturale Amara di Suruç, città poco distante dal confine tra Turchia e Siria a prevalenza curda, è stato dilaniato da una bomba che ha ucciso 32 giovani il cui scopo era portare un aiuto concreto alla ricostruzione di Kobane. La frequentazione di Amara durante i mesi della staffetta, diventato base operativa e punto di accoglienza per molti di noi, e l’accomunanza di voler portare una solidarietà concreta e un sostegno politico a Kobane e alla Rojava, ci hanno fatti sentire fin da subito vicini alle giovani vittime. Cooperazione politica che invece la Turchia del sultano Erdogan ha sempre rinnegato, anche di fronte ad una tragedia simile causata da un sostenitore del Califfato Nero. In questo episodio ne è la dimostrazione il fatto che le strade che portano al centro Amara sono state chiuse e a chiunque volesse portare il proprio aiuto ai feriti è stato impedito anche con l’uso della violenza e di gas lacrimogeni.
Già dal giorno successivo un’escalation di eventi ha preso avvio in Turchia riportando l’attenzione mediatica in quella parte del Medio Oriente.
Il primo momento di tensione sono stati i funerali del giorno successivo. La volontà di stringersi attorno al dolore delle famiglie colpite dal lutto improvviso si mescolava con la rabbia verso il governo turco e ha portato migliaia di persone a scendere in strada unendo civili, attivisti, associazioni e partiti politici di opposizione. Le piazze si sono riempite ancora una volta dell’indignazione verso chi, in questi mesi, ha esercitato il proprio potere opprimendo la minoranza curda e favorendo la diffusione del fondamentalismo islamico e che fino ad ora ha continuato a mantenere una posizione ambigua: se da una parte è stata diffusa quasi subito l’identità dell’attentatore (Seyh Abdurrahman Alagoz, giovane turco di vent’anni unitosi all’Isis da qualche mese e rientrato da poco dalla Siria), dall’altra non si è esitato ad imporre un altro blocco di Twitter, il terzo, nel tentativo di arginare la diffusione dell’informazioni riguardanti la strage e che si svincolavano dai controlli ferrei imposti dal governo sulla stampa turca. A questo si aggiunge il tentativo di dividere i curdi da quella parte della popolazione turca, per lo più giovani, che già negli anni scorsi si è opposta alle politiche di stampo islamista imposte dal regime di Erdogan e che si è dimostrata solidale con la resistenza curda.
Nel momento di cordoglio non sono mancate dunque le occasioni di scontrarsi con la sempre maggior brutalità della polizia turca, soprattutto nel quartiere di Gazi, zona popolare di Istanbul, e che non ha mancato di disperdere i manifestanti a colpi di manganelli, idranti e lacrimogeni, così come in molte altre città del Kurditan turco come Gaziantep, Diyarbakir, Izmir.
Le reazioni dei curdi non si sono fatte attendere: nel pomeriggio del 22 luglio i corpi di due agenti della polizia turca sono stati ritrovati nelle loro abitazioni a Ceylanpinar, nella privincia di Urfa a maggiornaza curda. Subito è giunta anche la rivendicazione delle Forze di Difesa Popolare (HPG), braccio armato del Pkk a dimostrazione di una sempre minor tolleranza verso un’alleanza tra i miliziani di Daesh e la polizia turca.
Le misure intraprese da l’Akp, ancora in una posizione interna incerta dopo le elezioni del 7 giugno, hanno fatto si che finalmente la Turchia uscisse allo scoperto nella lotta contro l’Isis. Questo però potrà tranquillizzare la stampa mainstream e i membri della coalizione internazionale, non certo chi in questi mesi ha seguito da vicino le dinamiche che hanno portato al conflitto in Rojava.
Sono iniziati quindi i bombardamenti delle postazioni dell’Isis nel nord della Siria da parte dell’aviazione turca (concedendo l’uso delle basi militari turche anche alla coalizione internazionale per la prima volta dall’inizio del conflitto) e una serie di arresti di presunti sostenitori dello Stato Islamico presenti sul territorio turco che hanno fatto ben sperare soprattutto gli Usa, felici di un nuovo alleato contro l’Isis, ma che agli occhi di altri si sono dimostrati chiaramente come una scusa per colpire duramente il Pkk e la rivoluzione politica che si sta compiendo in Rojava.
La tanto attesa dichiarazione di guerra della Turchia all’Isis, sfociata a seguito dell’uccisione di un militare turco lungo il confine con la Siria da parte di Daesh, ha portato all’apertura di due fronti: da una parte la Turchia bombarda le postazioni dell’Isis, senza dichiararne i risultati ottenuti o i danni inflitti, e allo stesso tempo bombarda anche quelle appartenenti ai curdi e posizionate nella parte settentrionale dell’Iraq, nella zona di Qandil, causando morti tra i civili dei villaggi circostanti.
Dal punto di vista della gestione interna del conflitto, la Turchia ha scosso il Kurdistan turco, Istanbul e altre città con centinaia di perquisizioni, blitz e operazioni di arresto dei militanti del PKK e di altri partiti politici di estrema sinistra, causando anche la morte di un’attivista, accompagnati dall’arresto di qualche sospettato affiliato all’Isis. Nuove proteste e nuovi scontri si sono verificati nelle strade della Turchia e a queste si è aggiunta la volontà di realizzare una marcia nella capitale organizzata dal Blocco per la Pace e prevista per la giornata di domani, ma che il governatore di Istanbul ha recentemente proibito.
Gli obiettivi del sultano Erdogan si rispecchiano in queste sue ultime disposizioni: l’uscita pubblica contro l’Isis era ormai quasi impossibile da rimandare, troppo pressanti infatti erano le richieste di chiarimento dell’opinione pubblica, nazionale e internazionale; così come la necessità, espressa soprattutto dal presidente Usa Obama, di fermare il transito di foreign fighter diretti in Siria e che transitano lungo il confine turco-siriano, che per anni invece il governo turco ha agevolato, anche con rifornimenti, armi, cure mediche ecc. La distruzione dell’esperimento politico della Rojava è molto probabilmente la vera spinta che sta portando Erdogan a pianificare un’invasione del nord della Siria attraverso la costituzione di una “no fly zone” di 90 km (50 in territorio siriano) e la costruzione di un muro lungo tutto il confine che impedisca il passaggio di uomini e merci.
Mentre sul fronte interno tutto questo sta portando ad un avvicinamento tra il partito dell’Akp e il partito kemalista Chp con lo scopo di creare un governo di coalizione che sia in grado di contrastare l’opposizione rappresentata soprattutto dal partito filo-curdo Hdp e che sia in grado di tagliare fuori la minoranza curda dalle future decisioni politiche.
Li dove Erdogan colpisce il cuore del movimento del Pkk, privandolo di coloro che non hanno mai smesso di lottare, è chiaramente visibile il tentativo di indebolire anche i curdi che continuano a combattere al fronte. I giorni successivi all’attentato di Amara e i nuovi attacchi a Kobane da parte dell’Isis hanno dovuto fare i conti con la prontezza e la determinazione di un popolo disposto a rimettere in gioco tutto pur di continuare a lottare e a difendere gli ideali rivoluzionari della Rojava, anche riprendendo in mano quelle armi che, da quando due anni fa sono iniziati i colloqui di pace tra il governo turco e il leader del movimento Pkk Abdullah Ocalan, erano state riposte.
La strategia con cui Erdogan si è inserito nella coalizione anti-Isis non deve far perdere di vista chi sono gli unici veri oppositori del fascismo islamico di Daesh: i curdi. Sono loro che combattono e muoiono al fronte e a cui è imposto l’embargo voluto dalla Turchia che impedisce loro di avere rifornimenti di cibo, armi e cure mediche attraverso quel maledetto confine che è rimasto invece attraversabile dai miliziani dell’Isis. Sono loro che continuano a resistere nei villaggi lungo il confine, nei campi profughi di Suruç e nelle manifestazioni che stanno riempendo le strade di tutta la Turchia. Ed è a loro che è andata la solidarietà espressa nei nostri territori a seguito dell’attentato di Amara: da Napoli a Pisa, da Genova a Roma e in molte altre città, presidi e iniziative hanno ribadito il legame rafforzatosi nel corso dell’ultimo anno e il sostegno alla lotta curda in Rojava.
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