di Marco Sandi
La situazione nel Kurdistan turco diventa sempre più eclatante. Le notizie che quotidianamente giungono dalla porta sud dell’Europa parlano di un’escalation militare che non ha avuto negli ultimi due anni alcun precedente. Di certo la situazione nel Kurdistan Bakur non è mai stata semplice ma nell’ultimo periodo sta raggiungendo un clima d’isteria collettiva che lascia trasparire ben poca luce all’orizzonte.
Questa narrazione dei fatti degli ultimi giorni vuole provare a chiarire quanto sta accadendo in quei territori, cercando di legare ai fatti di cronaca un’analisi politica. Ora più che mai è necessaria una spiegazione di respiro più ampio rispetto alla situazione dei curdi in Turchia e delle ultime implicazioni internazionali nella regione.
Leggiamo da giorni di un’intensificazione militare nell’est della Turchia, soprattutto nelle aree di confine con Rojava e Kurdistan iracheno, epicentri della trentennale lotta di liberazione del popolo curdo. In quelle zone, nell’ultimo mese, assistiamo a una serie di operazioni militari e di polizia che mirano direttamente a sfiancare il supporto popolare alla causa del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. L’imposizione di coprifuoco, gli arresti di massa e le vere proprie operazioni militari condotte da forze speciali, con il supporto dell’aviazione, hanno come obiettivo principale quello di sradicare il Pkk e le sue formazioni combattenti dal territorio turco.
Negli ultimi due anni, in seguito agli accordi di Imrali, l’isola-carcere dov’è detenuto dal 1999 il leader Adbullah Ocalan, si era arrivati ad una graduale distensione dei rapporti, con round di incontri tra membri delle forze armate turche ed emissari del Pkk, per cercare di armonizzare la situazione nel sud-est dell’Anatolia. Le basi poste erano, sostanzialmente, state accettate da ambo le parti in modo da intavolare un tentativo di cessate il fuoco che presupponeva, in un secondo momento, l’apertura di un negoziato politico tra Stato turco e Pkk.
Lo spartiacque che invece ha fatto precipitare questa situazione sono invece le elezioni politiche del 9 giugno scorso in Turchia. Da allora, infatti, reduce da una sonora sconfitta elettorale, il Presidente Erdoĝan ha ricominciato ad agitare il fantasma dei “nemici della patria” per portare acqua al mulino della sua causa.
Sono stati mesi caldi per il mondo della politica turca. La mancanza di una maggioranza assoluta in parlamento e quindi il tentativo di creare un governo di coalizione hanno fatto perdere ad Erdoĝan consensi e la sua figura di uomo forte e invincibile ne è uscita scalfita. Il gioco politico su cui il Presidente e il suo fedelissimo entourage hanno puntato è quello dell’instabilità, non avendo evidentemente altre carte da giocare.
Ecco che si spiega così la decisione del 24 luglio scorso di prendere parte attiva nella coalizione anti-Is a guida americana. Non è mai stato un segreto che gli obiettivi dello Stato Islamico in Siria siano molto simili a quelli di Erdoĝan stesso, e, infatti, molti sono sobbalzati sulla sedia quando è apparsa la notizia che anche la Turchia avrebbe partecipato ai raid aerei contro il Califfato Nero.
Questa scelta nascondeva un secondo passaggio politico: quello di riaprire la guerra contro i curdi per aumentare la legittimazione interna. Ad oggi, i raid compiuti contro obiettivi dello Stato Islamico in Siria sono irrisori rispetto al numero di bombardamenti effettuati contro villaggi e postazione del Pkk nelle montagne Kandil nel Kurdistan iracheno e contro postazioni dello Ypg in Rojava. Inoltre, è ultimamente gli Usa hanno avuto accesso, dopo mesi d’incontri e negoziati, all’importante base di Incirlik, presso Adana, dove saranno schierati i bombardieri, che al momento sono stanziati ad Aviano.
La risposta della popolazione curda e del Pkk stesso non si è fatta attendere. Mentre nelle città le persone sono scese in strada per protestare contro le violenze e la mancanza di diritti, nelle montagne del sud-est della Turchia sono ripresi i combattimenti tra i guerriglieri del Pkk e le forze di sicurezza turche. I numeri delle vittime non possono lasciare indifferenti. Si parla di più di 500 arresti tra i civili curdi e di oltre 300 vittime dei raid aerei e delle operazioni di polizia, molti dei quali erano semplici civili. Dalla parte turca invece si contano una trentina di vittime. Le tecniche delle forze armate sono sempre le stesse: l’invio di grossi contingenti di militari nelle aree calde, la perquisizione casa per casa di città e villaggi, l’uso indiscriminato di gas lacrimogeni e di armi da fuoco, l’utilizzo di elicotteri da guerra e mezzi corazzata. Il copione si è ripetuto nelle città di Şirnak, Şemndli, Hakkari, Muş, Bingol, Van, Elazig, tutti storici epicentri della resistenza armata del Pkk.
La storica intransigenza di Erdoĝan riguardo alla questione curda si riempie di un nuovo capitolo. Quello che sta succedendo in questi giorni entro i confini della Turchia non lascia spazio a immaginazione o interpretazioni diverse dalla seguente: usare il pugno di ferro contro i nemici interni per riguadagnare consenso elettorale in vista delle, molto probabili, elezioni politiche che si svolgeranno il prossimo ottobre.
Dall’altra parte invece, c’è chi sarebbe disposto invece ad un cessate il fuoco. Sono le parole di Cemil Bayik, membro fondatore del Pkk e del consiglio direttivo, che in un’intervista al Telegraph, si dice disposto – appunto – ad un “cessate il fuoco” sotto tutela Usa, ma non di carattere unilaterale. Dalle colonne dell’intervista emerge anche un’accusa diretta a Erdoĝan: la recente crisi, seguita dall’escalation militare, è dovuta all’insuccesso nelle elezioni di giugno, dove l’ostacolo più grande si è rivelato, essere l’Hdp, i partito filo-curdo che è stato il vero vincitore della passata tornata elettorale. Bayik aggiunge che il ruolo delle forze armate e degli apparati di sicurezza turchi è stato quello di provocare una risposta del Pkk, facendo così sprofondare il paese in una crisi che vede poche possibilità di una fine pacifica.
Illustrazione di copertina: Serpil Odabaşı
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