Il viaggio in Messico conclusosi circa una settimana fa ci ha permesso di vedere quel ponte tra Chiapas e Rojava di cui nell’ultimo anno abbiamo riempito i nostri discorsi e che ha indirizzato i nostri percorsi, diventando così anche la base dell’Associazione Ya Basta! Edi Bese! con la quale abbiamo ridato respiro a un percorso già consolidato negli anni precedenti.
L’iniziativa a cui abbiamo preso parte a San Cristobal, organizzata da un gruppo di ragazzi che si occupa dei diritti umani degli indigeni, ci ha permesso di raccontare la nostra esperienza nel Kurdistan turco attraverso la rievocazione della staffetta svoltasi nell’autunno scorso e di tutte le iniziative e mobilitazioni a sostegno della resistenza curda a cui abbiamo partecipato.
La recente pubblicazione in spagnolo e la distribuzione tra i “compas” del “Confederalismo Democratico” di Ocalan ha certamente alimentato l’interesse e la voglia di spingersi a conoscere questa esperienza ipotizzando una futura presenza sul territorio. Le quasi due ore di dibattito e domande ne sono state la conferma: dalle questioni più teoriche su come possa evolvere il confederalismo democratico e il rapporto tra le assemblee dei cantoni della Rojava e la decisione di candidarsi come partito politico alle scorse elezioni in Turchia, a domande di carattere più pratico riguardanti le modalità di passaggio del confine turco-siriano, hanno alimentato la serata.
Al centro di tutto stava la riflessione su cosa accomuna Chiapas e Rojava, zapatismo e confederalismo democratico. E se tra i temi principali vi era quello dell’autonomia dei territori non si può non pensare anche al contesto in cui eravamo immersi, il Chiapas, e al luogo in cui avevamo vissuto gli ultimi tre giorni, ovvero La Realidad. Riuscire a parlare di certe tematiche liberamente, azzardarsi in riflessioni e paragoni, a San Cristobal, dove più di vent’anni fa è iniziata quella rivoluzione zapatista che continua tutt’ora, regala un senso di romanticismo e voglia di ribellione.
Quello che gli zapatisti ci hanno dimostrato in più di vent’anni è che la rivoluzione è possibile e che si costruisce giorno per giorno. Dopo gli scontri aperti con il governo messicano e l’esercito federale in materia di riconoscimento dell’autonomia e dei diritti degli indigeni, si è passati ad una fase in cui il conflitto non è più visibile ma esiste ancora. L’autonomia raggiunta dai villaggi e l’organizzazione basata sui Caracoles è costantemente minata dalla Controinsurgencia, nata poco dopo l’inizio della rivoluzione zapatista e che, come abbiamo potuto constatare nel nostro viaggio in Messico, esiste ancora e con il tempo rischia di aumentare.
La tensione ancora forte anche dopo la morte di Galeano si percepisce all’interno de La Realidad. E’ lì, dove gli zapatisti sono riusciti a dare vita ad un modello efficiente di autorganizzazione e autosostentamento, che il mal gobierno tenta di insediarsi e distruggere ciò che è stato creato con il coinvolgimento e lo sfruttamento degli indigeni non zapatisti ai quali, in cambio promette denaro e proprietà. Parliamo soprattutto della CIOAC “Historica”, organizzazione paramilitare non zapatista supportata dal governo nelle sue azioni di appropriazione delle terre e di mezzi appartenenti agli zapatisti.
Non si tratta quindi di scontri armati diretti tra Ezln e esercito federale, ma tali forze sono comunque coinvolte in quella che è diventata una guerra di sottofondo, che fa tenere sempre alto il livello di attenzione e protezione degli abitanti dei villaggi e di chiunque si rechi qui a portare il suo appoggio.
Nonostante questo la rivoluzione all’interno dei Caracoles va avanti: le scuole insegnano la storia e l’importanza della rivoluzione, nuovi progetti vengono avviati e i comandanti stessi ripongono le loro speranze nelle nuove generazioni di zapatisti, i figli della rivoluzione del 94, affinché non vengano ingannati dagli strumenti del capitalismo e li sprona a diventare i protagonisti della nuova società che li ha visti nascere e che stanno costruendo.
Una difficoltà questa che però viene percepita poco all’esterno delle comunità del Chiapas e nelle altre parti del Messico. Spesso sono stati accusati per il troppo silenzio che circondava la Selva Lacandona, forse proprio dovuto ai problemi interni, e la mancanza di comunicazione in determinate situazioni, quando ormai ci si era abituati alla loro presenza anche al di fuori della Selva stessa, nella marcia a Città del Messico, fino nelle strade dopo il massacro di Acteal. Paradossale se si pensa agli inizi della rivoluzione e al modo in cui gli zapatisti sono riusciti ad appropriarsi di uno dei mezzi più usati dal capitalismo, Internet, per trasmettere il loro messaggio di lotta a milioni di persone, così lontane tra loro ma unite nella ricerca di un’alternativa al sistema capitalista, e diventare così parte di un immaginario comune che li ha resi il simbolo della resistenza contro ogni forma di oppressione per molti anni. Strumento che si è continuato ad utilizzare anche negli anni successivi, con il quale sono stati diffusi i comunicati del Subcomandante Insurgente Marcos, oggi Galeano, e che ci hanno permesso di conoscere in parte l’evoluzione del movimento zapatista.
Negli ultimi tempi però proprio la figura di Marcos è stato attaccata per il troppo silenzio soprattutto in occasione della sparizione dei 43 studenti della Escuela Normal Rural de Ayotzinapa, avvenuta il 26 settembre 2014, e che è continuato anche nei mesi successivi mentre in tutto il mondo si svolgevano mobilitazione in solidarietà alla disperata ricerca dei genitori degli studenti scomparsi.
Silenzio però che è stato interrotto nel novembre scorso durante il quale, per la prima volta, i genitori degli studenti desaparecidos hanno incontrato i membri dell’EZLN nel corso del loro tour per il paese e successivamente quando sempre l’EZLN ha ceduto loro il posto al Primo Festival Mondiale delle Resistenze e delle Ribellioni, sottolineando la forza della loro dignità nel continuare la ricerca della verità e aprendo quindi a nuovi percorsi di lotta condivisi.
In questo nostro viaggio abbiamo incontrato diverse esperienze di lotta tutte unite da un filo rosso che non è altro che quello della fragilità della propria esistenza all’interno della scelta di fare movimento. La varietà delle proteste che agitano l’intero Messico riguardano la limitazione, e più spesso la cancellazione, della libertà di stampa e la possibilità di avviare inchieste, in quanto spesso ne sono coinvolti proprio gli apparati statali e militari che dovrebbero tutelare la salvaguardia dei cittadini; così come le scuole rurali, prima fra tutte la scuola di Ayotzinapa, esempio perfetto di ribellione dal basso e autogestione, di capacità di lettura e analisi della complessità del mondo e che va al di là del compito primario di formare maestri che queste scuole si sono date. Fino ad arrivare in Chiapas, culla degli zapatisti e ispirazione per migliaia di movimenti in tutto il mondo. La difficoltà maggiore che si ritrovano a superare è forse la problematicità di reggere e mantenere salda una rivoluzione. Come già scritto in precedenza, si tratta di un contesto in cui la guerra la si combatte sullo sfondo, senza scontri diretti ma che mette in campo strumenti di militarizzazione come risposta alla crisi e repressione, iniziati con il governo Calderon in grado di controllare fortemente la vita delle persone attraverso sparizioni forzate e corruzione dilagante in tutti i gradi di potere causando una totale sfiducia nelle istituzioni e allo stesso tempo sono anche la causa della disgregazione del tessuto sociale in cui domina il monopolio della violenza legittimata dallo Stato. Per questo scegliere di fare movimento in Messico non è la stessa cosa che farlo in altri contesti, ad esempio, quelli europei. Qui non si torna indietro. La consapevolezza e la certezza di rischiare di non tornare a casa dopo un corteo, dopo un’assemblea o semplicemente dopo un volantinaggio è forte e condiziona la propria quotidianità e le future scelte di vita. L’uso del proprio corpo è totale: non solo nelle manifestazioni di dissenso, ma esso diventa una forma con cui mostrare la propria voglia di cambiamento. Tanto che si arriva a percepire una sorta di accettazione della morte, di normalità anche quando ci si ritrova in corteo per protestare contro l’ennesimo omicidio di un giornalista.
Diverso è invece il contesto di un’altra rivoluzione alla quale abbiamo portato la nostra solidarietà a partire da quest’anno: la rivoluzione della Rojava. Già molto è stato scritto sulle motivazioni, umane e politiche, che ci hanno spinto fino al confine turco-siriano e dentro la città liberata di Kobane.
A differenza del Chiapas qui la guerra è aperta e totale. Sullo sfondo della guerra civile siriana, il conflitto tra l’autodifesa curda Ypj e Ypg e i fondamentalisti islamici dell’Isis da circa un anno continua a mietere vittime tra i militari e i civili. Questa è la differenza tra le due esperienze di ribellione che maggiormente salta all’occhio in questo momento e che determina anche l’evoluzione dei due movimenti a livello della società civile.
Oltre ai curdi siriani che combattono al fronte, la rivoluzione della Rojava è espressa anche nelle proteste che hanno riempito le strade della Turchia e che continuano a crescere. Già un mese è passato dall’attentato al centro culturale di Amara nella città di Suruç e tali rivolte non danno segno di scemare come magari è successo in passato. In questo va dato conto alla forza e determinazione con cui il PKK ha rotto senza indugi la tregua promossa negli ultimi due anni in cui però il popolo curdo non ha mai creduto veramente, supportato anche dall’aumentare della repressione nei confronti dell’identità curda e dalle politiche islamiste promosse dal sultano Erdogan. Una dimostrazione di forza e coraggio nel fare determinate scelte di lotta e vita che, come nel contesto messicano, diventano un tutt’uno e anche qui, quindi, fare movimento assume un significato più profondo e determinante.
E come nel caso degli zapatisti, anche qui il governo ha cercato di intervenire con le modalità più subdole e viscide andando a colpire la rivoluzione dall’interno e arrivando a corrompere e sfruttare i più deboli promettendo loro denaro e altre ricompense. Un modo di agire in sordina mentre di facciata si stringono alleanze con gli Usa contro l’Isis, si bombardano le postazioni militari del Pkk e si uccidono a sangue freddo i civili curdi. Uno stato di militarizzazione che anche in questo caso vuole controllare e reprimere ogni forma di opposizione e che ha visto un incremento dopo il successo del partito filo-curdo HDP alle elezioni del giugno scorso che ha fatto scricchiolare il piano di egemonia del presidente Erdogan.
Tutti sintomi della debolezza di uno stato-nazione che non riesce a tenere insieme e a dare espressione a tutte le componenti che attraversano il suo territorio e la sua società. Di fronte alla fragilità del governo messicano e di quello turco, la risposta è arrivata dagli uomini dalle donne che si sono ribellati prima in Chiapas e poi nella Rojava. Il sovvertimento dello status-quo, delle egemonie istituzionali e militari, della corruzione degli organi di potere è iniziata dal basso, da quelle zone relegate ai margini della società che hanno iniziato il loro percorso dalla liberazione dei propri territori e su cui hanno fondato la loro autonomia, un esperimento territoriale e politico che è riuscito ad includere tutte le componenti della società e lontano quindi dal concetto escludente di stato-nazione. Un movimento che ha saputo autorganizzarsi e rendersi indipendente dai propri governi, allontanandosi dal modello di capitalismo dominante nel mondo, ma aprendosi ad altre forme di lotta e facendo sentire così vicini Messico e Rojava.
E come nelle scuole zapatiste in cui non si utilizzano i libri per far apprendere definizioni e nozioni, ma si insegna a porre domande, è così che tali rivoluzioni possono continuare e altre a nascere. E’ necessario continuare a porsi interrogativi, ad analizzare criticamente ciò che ci circonda e rimettere in gioco tutto quello che ci viene imposto dall’altro. E’ necessario continuare a camminare domandando.
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