Durante il 2015, il Messico è stato al centro dell’attenzione internazionale a causa delle costanti denunce di violazioni dei diritti umani. L’anno è iniziato con l’omicidio di un gionalista e termina con la negazione che il paese stia attraversando una crisi del rispetto dei diritti dei singoli cittadini.
Il 2015 è stato un anno durante il quale il Messico non ha potuto separarsi per un solo istante dai numerosi lutti che negli ultimi anni ha dovuto sopportare. I numeri dei desaparecidos sono cresciuti, i morti si sono moltiplicati: la notte di Iguala, le fosse clandestine, il narcotraffico, i femminicidi… In questa sfortunata lista è presente anche un nome:quello di Miguel Ángel Jiménez Blanco, attivista che ha guidato la ricerca dei 43 studenti scomparsi della Escuela Normal Rural Raul Isidro Burgos di Ayotzinapa, Guerrero.
In un giorno d’agosto venne data la notizia della sua scomparsa; seguita da quella della sua morte. Jimenez Blanco, al quale non venne mai chiesto di riconoscere i resti del figlio scomparso, e che fondò un gruppo di autodifesa, dimostrò quali sono i pericoli per un attivista che vive in Messico, una scelta che si può pagare con la propria vita. Alcuni mesi prima della sua morte, la capitale del paese divenne lo scenario di un crimine doloroso, ma annunciato.
Il 31 luglio, il fotoreporter Ruben Espinosa Becerril, venne assassinato insieme a tre donne nella zona di Colonia Narvarte a Città del Messico. “Non voglio essere il numero 13 o 14” disse a SinEmbargo, in riferimento al numero di giornalisti uccisi nello stato di Veracruz, supposizioni che erano accresciute dopo le minacce ricevute dal governo priista di Javier Duarte de Ochoa. Oltre a Espinosa Becerril, venne uccisa anche Nadia Vera, attivista che aveva pubblicamente condannato la repressione del governo di Duarte de Ochoa.
Le morti di Jimenez Blanco e Espinosa Becerril confermarono ciò che era già emerso a livello internazionale: il Messico non è un luogo sicuro ne per attivisti ne per giornalisti; si tratta di un paese in cui le libertà sono limitate, dove ogni 26 ore si violano i diritti di un giornalista (secondo i dati dell’organizzazione Articolo 19).
Secondo le cifre raccolte dalla Comisión Nacional de Derechos Humanos (CNDH) fino alla data del 30 novembre, il numero dei reclami risulta essere superiore a quello dell 2014. L’anno precedente la Commissione ricevette 8.455 reclami per violazioni dei diritti umani e, mentre mancano circa 30 giorni alla fine del 2015, i reclami sono 9.424. Sono principlamente rivolti contro l’Instituto Mexicano del Seguro Social (IMSS) (2.064), la Polizia Federale (754) e la Procuraduría General de la República (PGR) (724). E’ come dire che, ogni giorno, si raccolgono nel paese più di 30 reclami per violazioni dei diritti umani. Ufficialmente, dal 2006 in poi, si registrano 160 mila omicidi e 25 mila desaparecidos, senza tener conto degli sfollati a causa del dilagare della violenza.
“Siamo in guerra e si tratta di una guerra inedita. Non credo sia ideologica, bensì economica. Una guerra per il denaro e dove i territori e le persone sono diventati strumenti per massimizzare il capitale, sia esso appartenente al crimine organizzato o alle imprese, legali o illegali” ha affermato Javier Sicilia Zardaín, leader del Movimiento por la Paz con Justicia y Dignidad (MPJD), ad una conferenza il 21 novembre.
Il Messico si trova al 152 posto, su 180 paesi, della Classifica Mondiale della Libertà di stampa realizzata da Reporter senza frontiere (RSF). In accordo con quanto affermato dalla CIDH, l’89% dei crimini contro i giornalisti rimane impunita. Ne la Fiscalía Especial para la Atención de Delitos Contra la Libertad de Expresión (Feadle), ne il Mecanismo para la Protección de periodistas y de defensores de los derechos humanos hanno apportato ad un miglioramento della situazione.
Il 15 marzo, il licenziamento della giornalista Carmen Aristegui di MVS è stato attribuito alle sue indagini su “la casa bianca”, la residenza da più di 7 milioni di dollari della Primera Dama, Angélica Rivera Hurtado, e causò uno sdegno internazionale sul livello di libertà di espressione in Messico. Arigustei, con queste accuse, si rivolse al mondo interno e sfidò l’apertura del Governo federale alle critiche. Quando la notizia del suo licenziamento finì sui titoli dei vari media, già si erano verificate una serie di aggressioni nei suoi confronti e di altri che lavorano nel settore della comunicazione.
Il 29 gennaio El Heraldo de Córdoba, nello stato di Veracruz, fu attaccato con bombe molotov, lanciate da una distanza ridotta a un metro e mezzo dalla sede del giornale. Sempre nello stato di Veracruz, il 2 gennaio il giornalista Moisés Sánchez Cerezo, direttore di La Voz de Medellín, venne sequestrato. Faceva parte anche del Comité de Seguridad Medellín di Bravo e partecipò alla marcia contro la violenza per chiedere maggiori soluzioni all’Alcalde. Tre giorni dopo confermarono la sua morte. Furono uccise anche Patricia Iveth Morales Ortiz, fotografa de la Agencia Imagen del Golfo e Verónica Huerta, collaboratrice di AVC Noticias, di Veracruz. Il primo febbraio Verónica ricevette un sms nel quale era scritto “Stupida, dopo Moises tocca a te. Ti stiamo cercando, cagna”. (sic)
Prima delle intimidazioni verso i giornalisti e le rispettive famiglie, prima della mancanza di giustizia e misure di protezione efficaci, alcuni, come Ruben Espinosa, si sono visti costretti a fuggire. È il caso di Enrique Juárez, caporedattore de El Mañana, in Matamoros (Tamaulipas), il quale fu aggredito e sequestrato da un gruppo armato il 4 febbraio. I suoi rapitori pretesero la pubblicazione di articoli sulla città di frontiera e sugli scontri tra gruppi armati e forze di sicurezza. La direzione del giornale annunciò che Juarez si trasferì negli Stati Uniti, insieme alla sua famiglia, per motivi di sicurezza. Il giornale si lamentò anche dell’effetto dissuasivo di questa aggressione e affermò che come misura di sicurezza non avrebbero pubblicato nulla su questo atto di violenza. Due giorni dopo, nello stesso municipio, Televisa del Noreste fu vittima di un attacco con granate che ferirono due guardie di sicurezza. Il giornalista e conduttore radiofonico Moisés Villeda Rodríguez fuggì anch’esso da Ciudad Juárez, Chihuahua, e scelse l’esilio. Il collaboratore di El Mexicano optò per la richiesta d’asilo negli Stati Uniti per fuggire alle minacce ricevuto dopo la pubblicazioni di articoli dove denunciava il problema della corruzione in quella parte di Messico. Gli spedirono il corpo di un gatto squartato alla sede della radio dove lavorava con questo messaggio: “¡Bájale!”. Un report dell’agosto di quest’anno stilato dal Comité de Protección a Periodistas,affermò che il Messico è il quinto paese al mondo più pericoloso per il giornalismo, preceduto da Yemen, Sudan, Siria e Francia. La sua posizione si deve al fatto che negli ultimi dieci anni sono stati assassinati, ufficialmente, 80 giornalisti e 17 sono scomparsi.
La ley mordaza
Alle aggressioni contro giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani, si sommano i tentativi dei governi statali di applicare quella che vengono definite come leyes mordazas. Il Congresso di Quintana Roo, approvò, in agosto, la Ley para la Protección de Personas Defensoras de Derechos Humanos y Periodistas, voluta dal governatore del PRI Roberto Borge Angulo, la quale contiene disposizioni restrittive riguardanti l’esercizio dell’attività giornalistica. In accordo con quanto affermato dal gruppo Articolo 19, costituisce “un atto di simulazione” da parte di un governo che continua ad aggredire giornalisti critici e indipendenti. La legislazione fu quindi approvata in un contesto di violenze.
L’ultimo tra questi casi fu la detenzione del giornalista Pedro Canché Herrera, il quale fu poi liberato lo scorso 29 maggio dopo essere stato accusato di sabotaggio, senza aver raccolto prove. La CNDH presentò un’accusa di incostituzionalità contro questa legge alla Suprema Corte de Justicia de la Nacion (SCJN) sostenendo come andasse contro il diritto alla libertà d’informazione, di espressione e alla non discriminazione.
Attivisti e difensori in pericolo
Il primo novembre, il Comité Cerezo emanò un dossier nel quale segnalava che durante l’attuale Governo federale, che iniziò il primo dicembre 2012, sono stati arrestati 699 attivisti, accusati di sommosse, oltraggio all’autorità, omicidio e sequestro, soprattutto in Guerrero, Oaxaca, Chiapas, Michoacán e nel Distretto Federale.
In quest’anno, le grandi opere, generalmente concesse alle stesse imprese, segnarono una nuova tappa nella persecuzione degli ambientalisti, soprattutto nei confronti di coloro che si battono per il libero accesso all’acqua. Il Centro Mexicano de Derecho Ambiental (CEMDA) parlò di un aumento del 990 % delle aggressioni contro gli ambientalisti negli ultimi cinque anni.
Nel suo secondo report annuale sugli Ataques a Personas Defensoras Ambientales, il CEMDA denunciò una tendenza crescente nelle aggressioni: si passò dall’avere 10 casi nel 2010 all’averne 16 nel 2011; 23 nel 2012; 82 nel periodo tra gennaio 2013 e aprile 2014; infine 109 durante il periodo tra maggio 2014 e luglio 2015. Il CEMDA ha documentato 240 aggressioni contro ambientalisti negli ultimi cinque anni, 191 dei quali (79,5%) si sono verificati in due anni e mezzo: tra gennaio 2013, un mese dopo l’arrivo di Peña Nieto a Los Pinos, e giugno 2015. Secondo i dati raccolti, Sonora – con 16 casi tra maggio 2014 e giugno 2015 – è lo stato più pericoloso per chi decide di tutelare il proprio ambiente e le risorse naturali. Lo segue lo stato di Oaxaca, con 13 casi, e lo Stato del Messico con 12; il Guerrero con 9 e Chiapas, Chihuahua, Colima e Puebla, con 8. Nel Distretto Federale si registrarono 6 aggressioni. Per quanto riguarda le vittime, il report riferisce che 109 degli attacchi sono registrati tra maggio 2014 e giugno 2015. Si sono registrati anche 21 attacchi contro la comunità che si oppose ai progetti che avrebbero messo a rischio la salvaguardia del proprio ambiente e 17 furono rivolti contro organizzazioni non governative. Le minacce personali, telefoniche o elettroniche furono i casi più reiterati (75). Altre aggressioni comuni furono quelle fisiche, individuali o in gruppo (25); le accuse arbitrarie (19); le detenzioni illegali durante le manifestazioni (17); gli omicidi (11); la diffamazione delle organizzazioni civili (3); così come l’uso improprio della forza pubblica (2).
Il report “Defensa de la Vida. Conclusiones de la Misión de Observación Civil sobre la situación de las personas defensoras en México 2015” delle Nazioni Unite, ha constatato che in Messico la tortura è una pratica ricorrente e che esiste un “contesto di sparizioni generalizzato in gran parte del territorio statale, molte delle quali si possono classificare come sparizioni forzate; si calcola che, attualmente, più di 22 mila persone sono scomparse e 281.418 persone tra il 2011 e il febbraio 2015”. Il report assicura che in Messico “l’abuso del sistema giudiziario nel criminalizzare e stigmatizzare i difensori dei diritti umani è stato descritto dai procedimenti speciali dell’Onu e dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani come forma ‘sofisticata’ per zittire queste persone”. Si è potuto constatare anche l’uso dei penali aperti, vaghi e ambigui come la “privazione di libertà”, “attacchi alle vie di comunicazione”, “attentati contro la ricchezza nazionale” o l’applicazione indiscriminata di misure come l’arraigo, contro i difensori dei diritti umani durante l’esercizio della loro attività di difesa pacifica. “Il Messico deve tener conto delle raccomandazioni in materia di protezione dei difensori dei diritti umani emanate dopo la visita dei relatori dell’Onu, così come di quelli appartenenti alle organizzazioni specilizzate su questo tema”, conlude il documento.
tratto da Sin Embargo
http://www.sinembargo.mx/20-12-2015/1578126