Il dado è tratto, il Rubicone è varcato: il capitalismo estrattivo ha assestato il colpo del knock-out al progressismo latinoamericano con la definitiva destituzione di Dilma Rousseff da Presidente del Brasile. E’ stato un gioco di prestigio non da poco, le regole democratiche sono state messe a dura prova dagli eventi degli ultimi giorni e, anche se c’è chi grida al golpe (blando, suave, ma anche no), il corrotto Michel Temer è diventato Presidente a tutti gli effetti e la restaurazione neoliberista è avviata. Il ciclo progressista dell’intero continente è arrivato al capolinea. Sì, perché il Brasile è senza dubbio il paese più importante dell’area e, a parte la questione golpe sì golpe no, tutti gli analisti da destra a sinistra sono concordi nel considerare i recenti eventi brasiliani di importanza strategica per l’intero continente. Chi dalle poltrone del potere grida al golpe, dovrebbe però ricredersi perchè sebbene Dilma sia per il momento estranea a qualsiasi inchiesta sulla dilagante e irrefrenabile corruzione brasiliana e sia accusata “solamente” di aver falsificato i conti pubblici, non è stata estromessa dal Governo con mezzi incostituzionali. È stato un procedimento di impeachment un po’ spinto e giocato su cavilli e accordi di comodo, questo è chiaro e lo si evince dal fatto che, nonostante le “pesanti e gravi” accuse, Dilma sia stata graziata dal Senato e non sia stata interdetta dai pubblici uffici per i prossimi otto anni, cosa che avrebbe potuto rischiare. Questo è il modus operandi della democrazia moderna, un’idra dalle molte teste (per dirla alla zapatista) e solo lontana parente di quella greca. In questo calendario e in questa geografia, le regole esistono ma si possono aggirare quando capita l’occasione, quando la trama delle alleanze lo consente, quando i poteri forti e occulti del mondo finanziario mettono a disposizione ingenti quantità di denaro per sovvertire il presente. È la democrazia sporca ai tempi del capitalismo estrattivo che oltre a divorare ogni forma di vita esistente, si mangia pure presidenti scomodi. E chi partecipa al gioco democratico della rappresentanza istituzionale non può non accettare queste regole ballerine. Sul piatto della bilancia c’è dunque il controllo dell’intero continente. Troppo pericolose le suggestioni progressiste dell’ultimo decennio, e ovviamente il riferimento non va a quei governi che hanno di fatto cercato di gestire il sistema capitalista, ma a tutte quelle realtà ed esperienze che dal basso e in autonomia hanno trovato spazio e voce per poter costruire un’alternativa. Troppo rischioso lasciare al potere chi non crede ciecamente nell’accumulo per spoliazione. C’è da scommetterci che l’intreccio di alleanze tra il capitale finanziario, gli Stati Uniti e le destre locali porterà a nuovi forti scossoni nell’area: senza più la forza del Brasile, gli alleati progressisti si ritroveranno presto o tardi a dover fare i conti con l’impossibilità di reggere la pressione a cui sono sottoposti con una crisi economica galoppante creata ad arte per indebolirli.
È il caso, per esempio di Venezuela e Bolivia. Una prima riprova è avvenuta in queste ultime settimane nel Mercosur, il mercato comune dell’America Latina, dove, Argentina, Paraguay e Brasile (questi ultimi due Stati curiosamente i protagonisti di quelli che sono stati definiti “golpe blandi” che hanno portato alla destituzione dei legittimi presidenti progressisti), si sono opposti con forza alla possibilità che il Venezuela assumesse il suo turno di presidenza, a causa della crisi umanitaria e del mancato rispetto dei diritti umani dello stato caraibico. È evidente la volontà di mettere in difficoltà Maduro rispetto alla politica estera. Ma il successore di Chavez non se la passa troppo bene nemmeno a casa sua: la crisi dei prezzi petroliferi ha portato al collasso l’economia venezuelana con un’opposizione che ogni giorno di più acquista forza e potere. Se Maduro è ormai prossimo alla caduta, anche Evo Morales in Bolivia non dorme sonni tranquilli: il MAS (il partito del presidente) è in forte difficoltà anche nelle sue roccaforti storiche, come a El Alto, dove negli ultimi mesi sono scoppiate violente proteste che hanno causato anche alcuni morti. E sempre a proposito di morti, è di poche settimane fa la morte del viceministro dell’interno Illanes, rapito e ucciso a sangue freddo dai minatori durante una protesta contro l’ingresso del sindacato tra i lavoratori delle miniere voluto dal governo per regolamentare il settore. In Bolivia i cooperativisti (lavoratori delle miniere chiamati così perché riuniti in cooperative), sono una classe privilegiata molto potente e solo fino a qualche mese fa erano un forte alleato del presidente stesso. L’assassinio del viceministro è una chiara dichiarazione di guerra al governo di Morales; per i cooperativisti invece la guerra era stata dichiarata dal governo e l’omicidio del viceministro è la risposta agli attacchi subiti.
Tempi cupi anche nell’Ecuador di Correa, alle prese con la campagna elettorale per la presidenza. La situazione è caotica, sia a destra, che a sinistra: l’annuncio del ritiro del caudillo ha aperto le porte a molte candidature, al momento nessuna più forte dell’altra.
Insomma, la fin de ciclo è arrivata, i governi progressisti rimasti sono ormai assediati, le alleanze scricchiolano, i risultati, pochi, sembrano essere già stati dimenticati, complice anche una narrazione giornalistica esclusivamente di parte, vero braccio destro dei governi neoliberisti. È una narrazione che accentua le difficoltà del Venezuela ingigantendo i numeri delle manifestazioni degli oppositori e non parlando affatto di quelle a sostegno della revolución bolivariana e che innalza agli onori della cronaca il presidente della Colombia Santos per la pace stipulata con le FARC mentre continua a tacere sulle morti di attivisti e campesinos che quotidianamente avvengono nel Cauca dove rimangono attivi gruppi paramilitari.
Come detto più volte da più parti, tra le cause di questo cambiamento c’è l’incapacità dei governi di sinistra di governare il sistema capitalista. A questa è da aggiungere sicuramente anche quella dei caudillos progressisti di capire che il sistema capitalista si è evoluto e si è trasformato in una bestia feroce che fagocita la vita in ogni sua forma. Perché non ci sono né calcoli né strategie politiche, non c’è uno sfruttamento delle risorse ecocompatibile: quando un’impresa mineraria nazionale (privata o statale che sia) si prende la terra dei campesinos, ai loro occhi non è diversa da un’impresa straniera o multinazionale. Proteggere gli interessi economici di una nazione non è, né mai sarà, proteggere i suoi cittadini e i suoi territori.
È svanito così il sogno di una rivoluzione dall’alto di centinaia di migliaia di persone, tradite e abbandonate perché lì, in alto, non hanno saputo dare continuità a questo sogno e anzi hanno scelto la via del compromesso con le multinazionali, hanno scelto cioè di governare il processo capitalista. Svuotate le piazze, hanno dato spazio alla riorganizzazione delle destre, hanno lasciato che quelle stesse piazze, che un tempo chiedevano diritti e uguaglianza, ora chiedano sicurezza, difesa della patria, chiusura delle frontiere, restrizione dei diritti stessi. Hanno dimostrato così tutti i limiti di un progetto politico che non ha sovvertito il sistema ma lo ha semplicemente gestito.
Sembra il quadro di un’apocalisse imminente, ma lo sconforto per queste sconfitte non ci deve far pensare a un continente rassegnato, tutt’altro! Non fosse la straordinaria storia di ribellione latinoamericana ad insegnarcelo, è sicuramente il presente a darci i segnali di una ricostruzione dal basso che già in questo periodo di cambiamenti sta dando i suoi frutti. Come non guardare con ottimismo alle moltitudinarie marce studentesche e contro la riforma del sistema pensionistico in Cile? Oppure a quelle Argentine indignate e a difesa delle Madres de Plaza de Mayo e contro le riforme neoliberali di Macri? E ancora, alle proteste violente in Brasile a difesa della democrazia? E via dicendo, dai pescatori cileni di Chiloé ai maestri messicani della CNTE che lottano a difesa dell’istruzione e della cultura, passando per le resistenze ambientaliste honduregne ma non solo.
La difesa ambientale è sempre più il tema centrale delle lotte sociali. Lo abbiamo già detto: in questa fase il capitalismo brama tutto ciò che è monetizzabile e tutto ciò che la Terra ha, è diventato monetizzabile. Lo vediamo nei nostri territori, dai notav ai nograndinavi (solo per citare alcuni esempi noti), la difesa dei territori è ormai affidata ai comitati e alle organizzazioni ambientaliste, infatti da Morales a Renzi, la linea delle istituzioni è quella dello sfruttamento delle risorse e del “progresso”. Un progresso che provoca repressione, sparizioni e morti di attivisti in ogni angolo del mondo, un progresso che punta ad annientare ogni possibile opposizione, con ogni mezzo necessario. Le Nazioni Unite, solo alcuni mesi fa si sono espresse così: “Difendere la terra e l’ambiente sono attività letali in alcuni paesi e i diritti umani sono violati continuamente, incluso il diritto più elementare, quello alla vita”. Come hanno fatto con Berta Caceres in Honduras che lottava contro la costruzione di una diga che avrebbe devastato il territorio degli indigeni Lenca. A sei mesi dalla sua morte, sono stati arrestati i presunti killer, ma rimangono ovviamente impuniti i mandanti, nascosti tra i rappresentanti del progetto idroelettrico e i politici compiacenti, corrotti e complici.
Resta da capire quanto tempo ci vorrà, ma la ricostruzione dal basso è già avviata. La storia latinoamericana degli ultimi dieci anni è stata una lezione per tutti, la presa del potere e il rovesciamento del sistema capitalista così come era nella volontà di milioni di persone non ha funzionato e anzi ha prodotto un passo indietro. Ma come dice il pensatore uruguayano Raul Zibechi “sarebbe sbagliato pensare che stiamo tornando al passato, come alcuni analisti dicono a causa della perdita di conquiste del ciclo precedente. La realtà dice che la regione sta andando avanti ma, nell’immediato, ciò che abbiamo di fronte non è la società ugualitaria e giusta che sogniamo, ma un imminente scontro di treni, tra quelli in alto e quelli in basso, e lotte tra classi, razze, generi e generazioni. Verso questa fine sta andando l’umanità e questo è il futuro a medio termine che si intravede nella regione”.