di Giovanni Fassina
Con gli accordi di Oslo del 1994, Israele per la prima volta riconosceva formalmente il diritto dei palestinesi ad accedere alle fonti d’acqua presenti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Tuttavia, dopo più di 20 anni, i palestinesi non possono ancora usufruire pienamente delle proprie risorse idriche a causa delle restrizioni imposte dall’occupazione israeliana. In Cisgiordania l’esercito israeliano continua a mantenere il controllo del 90% dei pozzi d’acqua ed utilizza queste sorgenti per soddisfare il proprio fabbisogno domestico e per rifornire le colonie. A Gaza gli abitanti dipendono dalla falda acquifera costiera che, secondo fonti dell’UNICEF è al 90% inutilizzabile a causa dell’eccessiva estrazione e delle infiltrazioni di nitrati. Inoltre gli impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare sono spesso inattivi o funzionano a capacità limitata per la frequente mancanza di energia elettrica causata dall’assedio israeliano.Israele mantiene il controllo delle risorse palestinesi grazie alla collaborazione di moltissime aziende che, di fatto, gestiscono le infrastrutture di approvvigionamento e distribuzione dell’acqua palestinese.
Per comprendere meglio il ruolo ricoperto dalle aziende israeliane nello sfruttamento delle risorse palestinesi abbiamo intervistato Camilla Corradin, che ha lavorato con Ewash, organizzazione che promuove il diritto all’acqua del popolo palestinese.
Che cos’è Ewash e di cosa si occupa esattamente?
Ewash è un organismo di coordinamento di tutte quelle associazioni palestinesi ed internazionali, che lavorano sulla questione dell’acqua in Palestina. Quando è nata, nel 2002, fungeva da coordinamento operativo tra le organizzazioni che lavoravano sul terreno per garantire alla popolazione l’approvvigionamento dell’acqua e far fronte alle problematiche legate alla sua mancanza. Ad oggi Ewash raggruppa 25 organizzazioni e svolge principalmente attività di advocacy, ovvero iniziare discussioni dirette con le autorità in questione per favorire un cambiamento a livello politico, e di organizzare campagne di sensibilizzazione e di supporto per il diritto all’acqua del popolo palestinese.
Qual è la situazione della gestione delle risorse idriche nel Territorio Palestinese Occupato (TPO)?
La mancanza di acqua rappresenta un problema costante per la popolazione palestinese, soprattutto nei mesi estivi. In Cisgiordania, ogni estate i villaggi situati vicino agli insediamenti israeliani soffrono della riduzione o addirittura della mancanza di acqua corrente per diversi mesi. Una delle maggiori cause è la continua espansione del settore agricolo delle colonie che negli ultimi anni ha determinato un aumentato della domanda d’acqua a scapito dei bisogni dei villaggi palestinesi circostanti. Il consumo medio giornaliero di acqua in Palestina è di circa 70 litri per persona, ben al di sotto dei 100 litri indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per coprire il fabbisogno dei servizi domestici e pubblici. Al contrario, il consumo israeliano quotidiano medio procapite è circa quattro volte la media palestinese (300 litri).
A Gaza la situazione è ancora più drammatica. La falda acquifera costiera, che per molti anni ha rappresentato la fonte principale di approvvigionamento per gli abitanti della Striscia a causa dell’isolamento dovuto al blocco israeliano, si è quasi del tutto esaurita. Secondo i dati dell’UNSCO entro la fine del 2016 non sarà più utilizzabile. Inoltre, la ricostruzione avviata dopo la guerra del 2014 procede a rilento e circa 100.000 persone non hanno accesso alla rete idrica a causa delle restrizioni israeliane imposte sull’entrata dei materiali necessari per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture idriche.
Quali sono le maggiori risorse idriche palestinesi? In seguito agli accordi di Oslo, di fatto, cosa è cambiato per i palestinesi riguardo l’accesso all’acqua?
Le maggiori risorse idriche palestinesi sono costituite dal fiume Giordano e da due falde acquifere: una falda costiera nella striscia di Gaza (Coastal Aquifer) che, come detto prima, è quasi del tutto esaurita e una falda montana (Montain Aquifer) la cui zona di approvvigionamento è situata quasi completamente in Cisgiordania e che, a sua volta, è suddivisa in diversi bacini. Il bacino nord e il bacino est ricadono totalmente nei Territori palestinesi ed hanno una capacità di acqua limitata, mentre il bacino ovest è parzialmente condiviso con Israele e rappresenta la falda più grande e produttiva (ha una capacità di circa 362 milioni di metri cubi di acqua all’anno)
In seguito alla guerra del 1967 l’esercito israeliano aveva occupato e assunto il controllo delle principali fonti d’acqua in Cisgiordania. Nel 1982 la gestione delle infrastrutture idriche controllate dall’esercito veniva trasferita alla Mekorot, impresa idrica pubblica israeliana, per la cifra simbolica di uno shekel.
Gli accordi di Oslo avrebbero dovuto finalmente garantire un’allocazione equa di queste risorse, ma la situazione è cambiata ben poco. In pratica, nonostante siano nate delle forme di “cooperazione” per la gestione comune di queste risorse, Israele continua a mantenere un controllo quasi totale sulle fonti d’acqua palestinesi.
L’esempio migliore è rappresentato dal Joint Water Commite (JWC): un comitato di coordinamento composto in egual numero da palestinesi ed israeliani che aveva il compito di facilitare la cooperazione tra le parti per la gestione delle risorse idriche condivise in Cisgiordania, come per esempio l’apertura di nuovi pozzi e lo sviluppo della rete idrica. All’interno del JWC le decisioni venivano adottate per consensus, ovvero senza una votazione formale: le parti si accordavano nel corso di negoziazioni informali e il presidente del comitato si limitava a ratificare le decisioni concertate in precedenza. In questo modo si era venuta a creare una situazione di ricatto costante per cui gli israeliani acconsentivano a fornire maggiori quantità di acqua ai palestinesi solo in cambio del loro assenso a sviluppare reti idriche per le colonie israeliane in Cisgiordania. A causa della situazione paradossale che si era creata, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nel 2010 ha deciso di non partecipare alle riunioni del JWC e di conseguenza non ha più ottenuto i permessi per sviluppare nuove infrastrutture idriche. Attualmente, le poche infrastrutture per la gestione dell’acqua sono unicamente progettate e finanziate da donatori internazionali (come la Germania) che trattano direttamente con le autorità israeliane, scavalcando il JWC.
Un altro problema è dato dal fatto che la maggior parte dei pozzi d’acqua presenti in Cisgiordania e nella valle del Giordano sono situati in area c: aree palestinesi sottoposte esclusivamente alla giurisdizione israeliana (vedi mappa 2). Per questo motivo i progetti palestinesi per sviluppare nuovi reti idriche, cisterne, pozzi o impianti di trattamento delle acque reflue devono essere approvati preventivamente dall’amministrazione israeliana (Israel Civil Administration) che fino ad oggi ha respinto il 98.5% delle richieste (dati dell’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari)
In seguito agli accordi di Oslo, con la prospettiva dell’imminente creazione di uno stato palestinese, è stata creata la Palestinian Water Authority (PWA): un ente che ha il compito di gestire i finanziamenti dei donatori internazionali e di sviluppare le infrastrutture idriche necessarie approvate dal JWC. Il governo israeliano afferma sia colpa dell’inefficienza e della corruzione della PWA, che ha ricevuto fino ad oggi circa 500 milioni di dollari, se i territori palestinesi soffrono una costante crisi idrica. Come si può rispondere a queste osservazioni?
Io credo che il vero problema sia un altro: la PWA, come molti altre istituzioni palestinesi create con gli accordi di Oslo, ha dei poteri molto limitati e non può sviluppare alcun tipo di infrastruttura idrica senza le autorizzazioni dell’amministrazione israeliana. Sicuramente l’amministrazione palestinese non è esente da critiche e manca talvolta di strategie lungimiranti per perseguire il diritto all’acqua della popolazione palestinese.
Ad ogni modo ritengo che istituire un ente come la PWA con scarsi poteri e una giurisdizione assai limitata, e ritenerla responsabile a pieno titolo dell’assicurare l’accesso all’acqua di una popolazione sotto occupazione, sia un paradosso. Poco conta quanti milioni di euro sono riversati nelle casse della PWA se, a causa delle restrizioni imposte da Israele in quanto potenza occupante, i pozzi non possono essere scavati, le reti idriche installate e le cisterne costruite.
A Venezia si è tenuto il mese scorso Watec, un convegno sulle nuove tecnologie nella gestione delle risorse idriche, in cui parteciperanno diverse aziende israeliane. Cosa ritieni che la società civile in generale dovrebbe sapere in merito al ruolo delle compagnie israeliane nello sfruttamento delle risorse palestinesi?
Bisogna sempre ricordare che l’occupazione israeliana del territorio palestinese è resa possibile non solo da un costante sforzo bellico, ma soprattutto dalla complicità e dalla collaborazione di moltissime compagnie private. Lo sfruttamento delle risorse idriche palestinesi è un caso emblematico. La Mekorot è l’azienda principalmente coinvolta poiché direttamente gestisce lo sfruttamento dei pozzi palestinesi. Allo stesso tempo ci sono diverse aziende israeliane, come per esempio la Tahal Group International e la Triple T che parteciperanno al convegno Watec, che negli anni hanno implementato le reti idriche e gli impianti di gestione delle acque reflue in diverse colonie in Cisgiordania e nella valle del Giordano. Così facendo queste imprese si rendono complici nella violazione del diritto all’acqua dei palestinesi sancito dal diritto umanitario e dalle numerose risoluzioni adottate dall’Assemblea Generale e delle Nazioni.
Spetta inoltre agli stati terzi, secondo il diritto internazionale, assicurarsi che tale situazione in cui i diritti palestinesi vengono sistematicamente violati non venga perpetrata o tantomeno supportata. Le varie istituzioni, inclusa l’Unione europea, che supportano Watec e le compagnie che vi partecipano, non sembrano agire in questa direzione. È dunque importante che la società civile veneziana sia consapevole di quanto si nasconde dietro ai successi tecnologici israeliani nel campo dell’acqua, che saranno sicuramente messi in primo piano a Watec.
L’immagine di copertina è tratta da Infopal