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Manifesto per il Buen Vivir

Manifesto per il Buen Vivir                                                                                   de  –  en  –  es


L’emergenza sociale oggi è la terra                                
e noi siamo portavoce del suo dolore.                          
Non ci può essere Buen Vivir senza Giustizia.              
Movimiento de Mujeres Indígenas por el Buen Vivir

La memoria e le cose

L’America Latina, l’Africa e l’Asia formano un’area tricontinentale attraversata storicamente – e tutt’oggi – dalla sciagura del colonialismo. Questa categoria teorica, dalle profonde implicazioni nella vita dei popoli, possiamo immaginarla come la geografia sconvolta dalla storia. Teoria e prassi che, attraverso storia e geografia, hanno determinato diverse forme di epistemicidio, genocidio, ecocidio, culturicidio, femminicidio, e neanche gli Stati-nazione nella loro fase repubblicana e democratica hanno ancora davvero voluto né deciso di rifiutare. Le società con i loro silenzi ne hanno permesso la persistenza.

Il colonialismo, anche se forse sarebbe più appropriato declinare questa parola al plurale, ha determinato la perdita di esperienze vitali e cognitive di un’enorme quantità di popoli. Questo ha comportato la distruzione delle proprie conoscenze e di parti molto significative della loro popolazione. E lo stesso XXI secolo latinoamericano (e, più nello specifico, indoamericano) si regge ancora sulla base di un colonialismo attivo nelle mentalità e nelle soggettività, nelle culture e nelle epistemologie sintetizzate nella maggior parte degli Stati che configurano il nostro continente, e che ci tolgono la possibilità di accedere a saperi che dovrebbero oggi essere messi in dialogo con quelli egemoni nella ricerca di soluzioni ai problemi che dobbiamo affrontare.

Quando parliamo di colonialismo, ci riferiamo a una formazione sociale singolare definita dall’invasione straniera di una popolazione nativa costretta con la forza ad un supersfruttamento del lavoro, dominio politico e oppressione sociale. Nonostante questa definizione generale, è necessaria una distinzione per contestualizzare “il coloniale”, macrocategoria composta da almeno due sottounità: colonizzazione e colonialismo.

La colonizzazione è il processo di espansione e conquista di fatto delle colonie, l’assoggettamento di un altro territorio per mezzo della forza o della superiorità economica. Dunque, colonizzazione indica un movimento di aggressione che tende a consolidare un sistema differenziato e accentrante, poiché esprime la volontà di controllare, manipolare e subordinare un mondo diverso, alternativo o nuovo. E esprime uno scambio ineguale tra diversi tipi di potere: tra le idee su ciò che “noi” facciamo bene e “loro” non sanno fare o fanno male.

Il colonialismo (o la “colonialità”, diranno alcuni) è invece una realtà culturale e politica. Indica la dottrina e la pratica politico-istituzionale della colonizzazione. È possibile immaginarlo come un’organizzazione sistematica del dominio che è durato nel tempo. Nella sua forma più generale, è la dominazione istituzionalizzata di uno Stato imperiale o colonialista su popoli appartenenti a civiltà “lontane”. In questo senso, indica il dominio politico, amministrativo, finanziario, economico, commerciale, militare e culturale di un occupante su un popolo occupato, residente in un territorio più o meno distante da un’area metropolitana.

Queste categorie teoriche, essendo elaborate dalle lingue, hanno un impatto sulle forme cognitive e quindi sulle forme politiche. E toccano le forme sensibili del potere decisionale. Molti Stati latinoamericani sono orgogliosi di essersi liberati dal giogo coloniale, ma hanno ereditato e moltiplicato eredità e pratiche coloniali attraverso il loro avido capitalismo, la loro inclinazione patriarcale, le loro idee di modernità come progresso o sviluppo che non bada ai danni irreparabili che produce. Altri, invece, con sagacia, discussioni e perseveranza sono riusciti, almeno sotto certi aspetti, a sottrarsi a questa condizione costitutiva degli Stati-nazione del nostro continente.

Nell’Argentina pandemica del XXI secolo, un movimento di donne indigene sta facendo vibrare nel presente un bagaglio di lotte storiche di almeno 500 anni, mettendo in crisi la condizione coloniale dello Stato-nazione. Lo fa appellandosi a una parola che apre una fenditura nel tessuto della lingua, e quindi nelle forme cognitive e politiche: terricidio.

Sulle sintesi

Terricidio è una figura di sintesi. Di epistemicidi, genocidi, ecocidi, culturicidi, femminicidi avvenuti nel corso della storia e del presente coloniale del nostro continente. Significa sterminio sistematico di tutte le forme di vita, che riguardano sia l’ecosistema tangibile e percepibile – gli esseri animati di una foresta per esempio-, sia aspetti immateriali, culturali, linguistici o sacri.

Terricidio è genocidio perché c’è stata e c’è un impulso di sterminio sistematico verso i popoli indigeni da parte dello Stato-nazione, pulsione concentrata nelle sue forze repressive, per non dilungarsi. Terricidio è ecocidio perché si distruggono e contaminano indiscriminatamente interi territori – boschi, montagne, foreste, aree umide, completamente devastati, in modo irreversibile; distruzioni perpetrate da imprese che invadono e violano i territori con i metodi espansionistici di un’economia della morte. Terricidio è epistemicidio perché con la colonizzazione sono stati eliminati i criteri di intendere, conoscere e concepire la vita da parte dei popoli indigeni. E oggi si continua a perpetuare questa oppressione attraverso religioni oppressive che con i loro rituali privano della possibilità di conservare e trasmettere le forme della spiritualità ancestrale e gli spazi sacri per ogni popolo. Terricidio è femminicidio per l’assassinio sistematico dei corpi-territori femminili, effetto di relazioni sociali proprie della crudeltà e dell’appropriazione privata.

Sulle soggettività

I colpevoli di terricidio sono soggetti collettivi.

Sono gli Stati e quei governi incapaci di immaginare la vita al di là delle proprie pratiche, lingue, forme cognitive e politiche coloniali. E che con le loro politiche e i loro accordi contribuiscono alla distruzione della terra e di tutto ciò che vi abita.

Sono anche le corporazioni estrattiviste che continuano a praticare l’oppressione applicandola ai popoli che sostengono la reciprocità e l’armonia nei e con i territori. E che lo fanno banalizzando o evitando l’obbligo di attivare la consultazione e ottenere il consenso preventivo, libero e informato di coloro che subiranno i disastri che producono nell’ambiente circostante.

Sulle richieste

Le donne indigene chiedono che gli atti terricidi siano giudicati e condannati. Che il terricidio sia formalizzato come un crimine contro la natura e di lesa umanità, e che sia imprescrittibile perché, quando prende forma, si uccide sia la vita umana che quella non-umana, senza differenze ne tanti complimenti. E questa è una richiesta che ci interroga tutti, sul nostro futuro e su quello delle generazioni che verranno.

Pluriversità

Come ci racontano queste donne in cammino,

Noi Mujeres Indígenas por el Buen Vivir siamo un movimento plurale formato da donne indigene delle 36 nazioni originarie. Con la parola terricidio nominiamo anche il nostro dolore e la devastazione che subiscono i territori, la nostra spiritualità e i nostri corpi, perché in essa si codificano tutte le forme di assassinio della vita che ha il sistema occidentale.

Il nostro movimento percorre il paese dal suo estremo nord e dal suo estremo sud. Vogliamo determinare un appuntamento promotore di coscienza per dimostrare che l’Argentina è un paese abitato in realtà da una pluralità di nazioni, da molteplici popoli e culture. Riteniamo che lo Stato argentino sia uno Stato invasore, che lungi dall’amministrare con saggezza e solidarietà, ha invaso i territori, li ha saccheggiati, contaminati, distrutti. Questo Stato mostra una dipendenza assoluta dalla corporocrazia estrattivista e assassina che concentra il suo potere su altre latitudini del mondo.

Camminiamo per proporre una nuova matrice di civilizzazione che ci avvicini al “buen vivir” – un modello di vita empatico, comune, reciproco – come diritto.
Camminiamo per manifestare che non ci può essere
buen vivir senza giustizia.

Il nostro camminare è una forma di utopia. Arriveremo a Buenos Aires il 24 maggio 2021 per lanciare il primo grido di libertà dei popoli e dei territori. E già sappiamo che bisognerà ritornare, tornare a insistere, tornare a ripiegare il pensiero e la lingua su se stessi per costruire una società veramente libera, giusta, umana, nella quale il buen vivir sia un importante dato di fatto, connaturato in ogni individuo e società umana.

Che cosa chiediamo noi donne indigene?

Che gli ATTI TERRICIDI siano GIUDICATI e CONDANNATI.
Che il TERRICIDIO sia considerato un crimine di LESA NATURA e di LESA UMANITÀ in quanto attenta e compromette la vita umana come quella non umana, indiscriminatamente. Chiediamo che terricidio sia un CRIMINE IMPRESCRITTIBILE.

Per questo diciamo: finché non avremo giustizia, per loro non ci sarà pace”

Strumenti

Il Movimento cerca di articolare uno strumento promosso dai popoli indigeni – in dialogo con quellx attorx sensibili del governo e della società – per identificare e condannare i soggetti responsabili del terricidio, e lottare con l’obiettivo di ottenere giustizia.

Questo manifesto fa proprie le richieste del Movimiento de Mujeres Indígenas por el Buen Vivir, e invita a renderle trasversali, accompagnarle e moltiplicarle. È necessario, nel senso di inevitabile, costruire una società in cui il Buen Vivir come diritto sia possibile.

Il nostro impegno

Lottiamo contro il Terricidio, per l’affermazione del Buen Vivir e per il riconoscimento della plurinazionalità dei territori.