Nel giorno del settantaquattresimo anniversario della Nakba stiamo riempiendo le valigie per partire per la Palestina. Le stiamo riempiendo dei nostri più bei sogni di libertà e giustizia. Sogni che continuiamo a coltivare nonostante le violenze inaudite delle quali siamo quotidianamente testimoni in questi giorni. Abbiamo ben chiaro che questi episodi di violenza non sono qualcosa di nuovo, improvviso ed isolato; questa è la violenza con la quale in Palestina i nativi fanno i conti da almeno 74 anni.
Settantaquattro anni proprio oggi, perché il 15 Maggio i palestinesi ricordano la Nakba, ma sono più di 74 anni che il sionismo ha posto le basi per il suo progetto coloniale: un progetto del quale anche l’Europa che oggi fa i conti con uno scenario di guerra globale è responsabile.
Dal 1948 in poi, milioni di palestinesi sono diventati profughi e chi ha avuto il coraggio o la possibilità di rimanere nella sua terra ha dovuto fare i conti con un sistema di apartheid.
Settantaquattro anni da quel Nakba-day dunque, ma la Nakba (catastrofe) non si è davvero consumata in un solo giorno; è mantenuta ancora viva da Israele. Nella sua legislazione, infatti, vi sono almeno due leggi che impediscono il ritorno palestinese: la “legge sul diritto di ritorno” che lo riconosce solo a chi è ebreo anche se né lui né la sua famiglia sono mai stati in Palestina in vita loro, discriminando su base religiosa ed etnica, e la “legge per la prevenzione dell’infiltrazione” che ha permesso ad Israele di uccidere sul posto ed in maniera extragiudiziale migliaia di palestinesi che tentavano di tornare nelle loro case, criminalizzandoli e rendendoli clandestini nella loro terra nativa.
La Nakba è viva più che mai quando Israele umilia i palestinesi con le demolizioni delle case, perché costruite senza permesso in un sistema che è progettato per negargli la possibilità di ottenere tali permessi.
La Nakba continua con lo sgombero forzato delle famiglie di Sheikh Jarrah o di Massafer Yatta; per il Ministero degli affari esteri israeliano nel primo caso si tratta soltanto di “una controversia immobiliare tra privati”, ma questa controversia si basa su una legislazione razzista che riconosce solo agli ebrei il diritto di avanzare rivendicazioni di proprietà per case e terreni precedenti al 1948.
La Nakba è attuale quando i coloni si spostano nelle città e nei villaggi arabi, aggredendoli, rendendogli la vita impossibile ed ottenendo la protezione dell’esercito israeliano.
La Nakba è viva nei 700 Km del muro dell’apartheid, nella privazione del diritto alla libertà di movimento, nella privazione dei diritti civili, nella pretesa di supremazia degli ebrei sui palestinesi anche quando vivono nella stessa area geografica o nella stessa città.
La Nakba è presente nel condizionamento delle scelte familiari, quando i palestinesi devono scegliere di chi innamorarsi e con chi creare una famiglia sulla base del colore della carta d’identità o rischiano di diventare apolidi, di non poter vivere insieme o di mettere al mondo dei figli senza diritti civili e senza documenti.
Ed infine la Nakba continua nell’assedio di Gaza che dura da 15 anni. Senz’acqua pulita, senza il permesso di uscire nemmeno per le cure mediche, sotto bombardamenti a tappeto continui anche su scuole, ospedali e sulla stampa, con enormi difficoltà per la ricostruzione: due milioni di persone vittime di una punizione collettiva!
La violenza in Palestina, anche quando diventa così efferata da destare il mondo dal suo torpore balzando agli onori delle cronache, come nel caso (non certo il primo) dell’assassinio della giornalista Shireen Abu Akleh e del suo funerale, non è una novità bensì è parte del sistema sul quale si fonda quella che si ostina ad autoproclamrsi “l’unica democrazia del Medio Oriente”: un sistema coloniale e suprematista che utilizza la violenza di stato per reprimere ogni forma di resistenza all’apartheid.
Un sistema di apartheid è un sistema profondamente ingiusto e dobbiamo sempre avere ben chiaro che non può esserci pace senza giustizia!