No, non intendo dire che non me ne frega niente di quello che dicono contro per difendere il loro prezioso “Preciso”. Né che, in quanto “progressisti”, sono rossi fuori e bianchi dentro. Sto parlando di un ravanello. Di quell’ortaggio, quindi, che chiamano “ravanello”.
Questa piccola storia inizia nel Viaggio per la vita, capitolo Europa. Prima di partire, ho chiesto ad alcuni compagni e ad alcune compagne di inviarmi le foto di ciò che hanno visto e di ciò che ha catturato di più la loro attenzione nei luoghi che avrebbero visitato.
E infatti. Dopo le foto e i video della partenza, di come sono rimasti bloccati in un aeroporto perché hanno perso la coincidenza (grazie al supporto del team di supporto), sono iniziate ad arrivare immagini da diversi luoghi.
No, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le foto non erano di monumenti, siti turistici, paesaggi, passeggiate o selfie. Erano le cose che catturavano l’attenzione, grazie all’importanza che la delegazione dava a coloro che la ospitavano: persone, gruppi, collettivi, organizzazioni e movimenti così diversi per colore, dimensione, etnia, lingua, cultura e motivazione che sembrava impossibile che lo stesso sguardo potesse prenderli tutti. Eppure nello sguardo zapatista erano uniti. “La nostra famiglia qui”, dicevano camminando per le strade dell’Europa ribelle, quella che non si sottomette, quella che non si arrende. Ora, nelle terre zapatiste, non è raro sentire “la nostra famiglia laggiù”.
Ci sono foto di animali, di piante, del cibo che hanno ricevuto, della gente, delle montagne, dei “modi” delle famiglie “laggiù”.
Tra tutte, quella che ha attirato maggiormente la mia attenzione è stata la foto di un ravanello. Naturalmente, essendo un nemico mortale delle verdure, ho pensato che si trattasse di una cipolla rossa. Così l’ho anche etichettata: “foto di una cipolla rossa”.
Più tardi, quando sono tornate, la compagna che ha scattato la foto mi ha detto che non era una cipolla, ma un ravanello. Emozionata ha detto:
“Non è una cipolla. È un ravanello, ma molto diverso. È di dimensioni e colori diversi, ma all’interno è un ravanello. Cioè è molto diverso da quello del mio orto, ma è lo stesso. Il ravanello era molto buono. E coltivano anche i porri. Diversi, ma è lo stesso. E ciò che mi ha colpito è che coltivano, cioè lavorano, per dare ad altre persone che non hanno cibo. Quindi non si tengono il frutto del loro lavoro, ma lo condividono con chi ne ha bisogno”.
“E quelle famiglie laggiù, si scoraggiano? No, anche se non c’è terra da piantare, trovano un modo. Per esempio, piantano pietre e si fanno gli ortaggi da soli. Vanno a cercare del buon terreno, lo trasportano e lo mettono sulla pietra o nei vasi, ed ecco che hanno il loro orto!”
“Prima avevo l’orto solo nel campo. Ma durante il viaggio ho imparato che si possono coltivare gli ortaggi anche a casa. Così ho fatto l’orto anche dove vivo. E ho ravanelli e porri. Sono diversi da quelli della famiglia di là, ma sono uguali”.
“No, quella non è una cipolla, è un ravanello. Il posto si chiama “Bulgaria”, la capitale del Paese si chiama “Sofia”. L’ho corretta e lei ha detto solo “è lo stesso”, e ha continuato:
“Eravamo già stati in una geografia chiamata “Slovenia” e lì abbiamo anche imparato a conoscere il loro modo di vivere e di combattere. In Francia ci capitò di essere abbandonate. E dovevamo stare in casa di una compagna che non parlava spagnolo, io parlo Cho’ol, quindi il mio spagnolo è molto diverso. La mia squadra era composta da tutte donne, Tzotzil, Tzeltal e Cho’ol, e il nostro compito era quello di tenere discorsi su come siamo donne. Per questo siamo state accompagnate da una cittadina messicana che però doveva tornare a casa. Quando se n’è andata, ci ha detto: “Non preoccupatevi, installerò un’applicazione che traduce. Basta parlare al cellulare e il cellulare lo ascolta, lo traduce e parla nella lingua che gli dici”, però il cellulare non capisce lo “spa-cho’ol”, o lo “tzotsi-gnolo”, o lo “tzelta-gnolo”, così ha tradotto qualcosa di diverso da quello che volevamo dire. E la donna che ci dava l’alloggio si metteva a ridere. E abbiamo sofferto molto, perché volevamo andare in bagno e non sapevamo dove fosse. E non sapevamo come dirlo alla compagna. E non c’era modo di farlo davanti a lei. Ma con i segni ha capito e ci ha mostrato dov’era”.
“Il gruppo che ci doveva portare in un altro posto non è arrivato. E noi, che eravamo varie compagne ad essere rimaste bloccate lì, abbiamo pensato se saremmo rimaste lì per il resto della nostra vita. E poi, beh, non sappiamo nulla su come affrontare la vita in questo luogo. Così abbiamo sofferto. Abbiamo pensato se fossimo morte e ci siamo intristite perché poi chi si prenderà cura del campo e degli animali. Ma poi pensiamo che non ci sarebbero stati problemi, perché sicuramente i compagni zapatisti se ne sarebbero occupati. Ma poi ci hanno trovato e salvato, ed è finita lì”.
“Eravamo organizzate, come sempre. Era molto freddo e buio, e nella casa della compagna francese non c’era la luce. Cioè, non ha la luce della città, ha la sua luce. Ha una luce propria. Così abbiamo acceso le luci in casa e, mentre alcune di noi preparano la colazione, altre cercano di scaldare l’acqua per il bagno. Poi è scattato un forte allarme e siamo corse fuori perché pensavamo che la casa stesse per esplodere. Siamo corsi a cercare la nostra compagna, che è anziana e sempre sorridente, e le abbiamo raccontato il disastro. Ma lei ha riso molto e poi, con il traduttore, ci ha spiegato che non si può fare tutto nello stesso momento. Ogni cosa a suo tempo. Anche noi abbiamo riso. Ma prima stavamo per morire di paura”.
“Quella compagna vive da sola. Non ha paura. Non vive in città. Ha preferito vivere in montagna. Ed è lì che si trova la sua casa, in mezzo alla montagna. Fa parte di un’organizzazione che lotta contro i centri nucleari. È lì che ha i suoi compagni di lotta. Quindi è sola, ma non è sola. È anche accompagnata”.
“Non posso dire il suo nome perché non so se è il suo nome civile o di battaglia, quindi non posso. E abbiamo delle foto di lei, ma non possiamo pubblicarle perché dobbiamo prima chiedere il suo permesso, cioè se lo autorizza. E poi dobbiamo usare il traduttore e comunicare a casa sua, ma lì non ha il segnale del cellulare. Però sì raccontiamo la storia. Così all’improvviso se le sue compagne la leggono gliela raccontano quando la vedono”.
“Ci ha chiesto di lasciare la nostra impronta come vernice su alcuni sacchi. Per ricordarci, ha detto. Abbiamo messo ‘Grazie. Ti portiamo nel cuore”. Ed è vero, questa compagna ci ha lasciato un segno con il cuore. La verità è che sì ci siamo “incontrate” con la compagna. Eravamo perse, ma non lo eravamo. Perché con quella compagna ci siamo ritrovate”.
“No, non pensiamo al marito o al fidanzato. No, non ce lo ricordiamo nemmeno. Quello che ci mancava era il campo e gli animali. Ma non pubblicarlo, perché gli ho detto che l’ho pensato molto.”
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Odio dirlo, ma sembra che la verdura sia politica con altri mezzi.
OK. Salute e, come non disse Lenin, la zucca è il nemico principale.
Dalle montagne del sud-est messicano.
El Capitán.
Agosto del 2024.